Corso di surf per disabili della vista: equilibrio, consapevolezza, energia

Una fase della prova pratica di surf svolte al Poetto

Devi sentire l’onda, ascoltare la sua energia, sincronizzarti e poi lasciarti andare. Non hai bisogno di vedere!” (Dal film Point break)

L’arrivo in spiaggia

Le 17.30 di un mercoledì di luglio. Il viaggio in macchina con Marco e i suoi genitori, da casa mia al Poetto di Cagliari, dura giusto il tempo di una chiacchierata a finestrini abbassati per combattere il caldo. Arriviamo in spiaggia. Togliamo le scarpe, la sabbia è calda sotto i nostri piedi, la magliettina di lycra ci fa sudare.

Preparare il corpo e la mente

Una sessione di stretching seguendo le indicazioni dei maestri, poi la prima volta con le tavole. Le mani scorrono sulla superficie di plastica e portano via qualche granello di sabbia. Ci viene spiegato come remare, come metterci in piedi, la posizione da tenere durante la surfata. Ci viene data una cavigliera di velcro che ci lega alla tavola, il leash. Ci dicono che serve per non perdere la tavola in acqua. Nella mia mente riaffiorano le immagini che vedevo da ragazzina sulle riviste e nelle serie tv, i surfisti con le loro tavole, le onde dell’oceano, le loro mani che accarezzano il muro d’acqua mentre lo cavalcano. A sedici anni sognavo la California, le spiagge francesi di Biarritz, mi ripromettevo che un giorno anche io avrei provato quella sensazione, essere un tutt’uno con il mare e sentirne l’energia scorrerti dentro.

Dentro l’acqua

Leghiamo la caviglia con il leash, afferriamo la tavola, entriamo in acqua. Il mare ci accoglie con qualche piccola onda, gentile, il vento è una benedizione sulla faccia accaldata.

Le voci dei maestri Michelangelo, Daniele e Diego ci guidano fino alla corda che delimita l’area in cui possiamo surfare.

Con me, in questo viaggio, ci sono Giuseppe, Simone, Giancarlo e Marco, quattro uomini, tutti sportivi, tutti imponenti nella loro fisicità, nel loro modo di stare al mondo da non vedenti.
Mentre avanzo nell’acqua mi ritrovo combattuta tra la sensazione che sia finalmente arrivato quel momento che sogno da vent’anni e la consapevolezza che non ce la farò mai. Peso 42 chili e ho difficoltà a stare in equilibrio persino sul pavimento di casa. A essere onesta, da quando ho perso la vista, la parola equilibrio è decisamente fuori dal mio vocabolario.

Prove e fallimenti

Quando mi metto supina sulla tavola per remare a pelo d’acqua è una specie di incubo: il dondolio delle onde mi fa girare la testa, penso, ecco cosa provano gli astronauti durante le esercitazioni, sei nell’oscurità più totale, non hai punti di riferimento, non hai confini, barriere, fluttui dentro a una specie di nulla in moto costante.

Quando i maestri ci chiedono di metterci in piedi quasi mi viene da piangere. Sono una pappamolle, ma sono una pappamolle molto competitiva e l’idea di arrendermi senza neanche provarci mi mette a disagio. Non voglio sentirmi inferiore all’esercito del testosterone che già si sfida a chi raggiunge prima la riva e chi perde paga da bere a tutti. Decido di provarci in modo goffo e imbranato strisciando dapprima sulle ginocchia, poi mettendomi in piedi con l’aiuto dell’insegnante che mi tiene la mano. Prendo un po’ di confidenza con la tavola che mi appare ancora infida, pronta a rovesciarmi in acqua alla prima distrazione.

Al quarto tentativo il mio maestro, come ogni mentore che si rispetti, mi dice che devo andare da sola. Dato che sono un’eroina riluttante gli stringo ancora più forte la mano pregandolo di non farlo. Lui però mi molla e me ne sto lì, sulla tavola, a cercare di non cadere, di mettere bene i piedi, di piegare un po’ le ginocchia, di puntare la testa in direzione del mio braccio destro, verso la mia meta, la riva, e intanto ho in testa Surfin’ Safari dei Beach Boys che un amico mi ha fatto ascoltare quella mattina a mo’ di incoraggiamento. Mi concentro, cerco il dannatissimo equilibrio, ma la mia mente è affollata di pensieri e non sento la tavola, non sento il mare, non ascolto il mio corpo. E cado. È lì che mi sbuccio il primo ginocchio.

Il tuffo però ormai è fatto, la soglia superata, non si può più tornare indietro.

Ci riprovo, cado ancora, e ci riprovo, fino a quando succede.

Sentire l’onda

I piedi si posizionano, l’onda è un’energia che mi guida e mi sospinge, la testa punta dritta alla meta, il mio corpo ha capito, in un modo a me tutt’ora sconosciuto, come posizionarsi per restare in equilibrio. Sento la tavola, il bacino si aggiusta e segue il dondolio, e alla fine arrivo alla spiaggia.

Esulto. Poi , mentre scendo dalla tavola, cado. Quasi annego in venti centimetri d’acqua. Ma sorrido. Non posso farne a meno. Dopo anni in cui al mare a malapena mi bagnavo i piedi, torno a lasciarmi sommergere, a ingoiare acqua salata, a scorticarmi piedi e ginocchia.

Ma come dico sempre, l’importante è rialzarsi.

Il surf è come un vizio che non riesci a smettere. Ti fai male, perché te ne fai, ma alla fine sei orgoglioso delle tue cicatrici.

L’equilibrio è anche interiore, ti senti in armonia con il mare, con la tavola, e soprattutto ti senti potente.

Consapevolezza

Due donne mi si avvicinano mentre mi asciugo in riva. Mi chiedono che associazione siamo. «Ierfop» rispondo. «E i corsisti siamo tutti ciechi». 

Le due donne restano un attimo in silenzio. Poi cominciano a sommergerci di complimenti, curiosità, sorpresa e vivo interesse per i nostri allenamenti. «Tu poi sei bellissima» mi dice una delle due. Ringrazio. Dentro di me lo so. Sono bellissima perché, almeno per oggi, ho ritrovato un po’ di me stessa.

Roberta Gatto

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