Cronache di un pomeriggio d’estate

“Dominica jurnata di sciroccu fori nas fori nan si pu stari pi ffari un pocu ‘i frescu mettu ‘a finestra vanedduzza e mi vaju a ripusari”

                              F. Battiato

Ma se fuori non si può stare, dove posso andare a riposare?

Scendo nel parcheggio sotterraneo, esco in auto con l’aria condizionata a palla.

Indosso un completo di lino pesante, in chiare tinte acquarellate che mi copre dal collo alle caviglie, dalle spalle ai polsi e un cappello a larghe falde. Cammino esplorando lo spazio davanti a me con il bastoncino bianco usato dalle persone cieche. Seguo l’ombra delle case, degli alberi e dei camion parcheggiati, passo sotto ai tendoni dei negozi e giungo alla meta. Se si viene in auto, potrebbe essere anche peggio. Sbattuta la portiera, la botta di calore è notevole e, se poi il parcheggio è lontano…….

Col respiro strozzato dall’afa del pomeriggio, nella luce accecante d’agosto, sono qui, in piedi davanti alla biglietteria. Gli avambracci appoggiati al piano di marmo mi danno il primo brivido. Fatti pochi passi lenti e stanchi, si oltrepassa la tenda di velluto e si precipita nell’ombra fonda, nella frescura dell’aria che abbraccia il corpo sudato. Le gambe riprendono quel poco di tonicità sufficiente per raggiungere la poltrona. Mi accomodo, allungo le gambe per misurare lo spazio davanti a me. Da questo momento, io e la mia poltrona siamo un’isola sola, unica, tra le altre in fila.

Sono al cinema e questo è un desiderio di viaggio.

Si va con un bagaglio minimo, si sfida la calura per cercare la frescura, si attraversa la luce per entrare nell’ombra. Poi, ci si lascia avvolgere dal buio, tutti insieme, vedenti e non, per apprezzare meglio il film. Che in sala ci siano le luci accese o spente, per chi non vede nulla cambia, eppure, quando lo schermo s’illumina e la prima immagine del film appare, tra gli spettatori rilassati, immersi nell’oscurità, il clima socio-emotivo si modifica. Noi, seduti tra loro, come in un gioco di specchi, lo riflettiamo.

Nel viaggio a Napoli, pubblicato nei numeri precedenti di “Cittadinanza Sociale”, esprimevo il desiderio di vivere l’esperienza in totale autonomia e di come questa possibilità sia quasi impossibile per una persona non vedente. Vedere un film da soli è gratificante, molti cinefili lo sanno. A me lo hanno raccontato alcuni tra i miei autori preferiti: la Ginzsburg, Goffredo Fofi e Viviane Lamarque. Al cinema “tutta sola” io non ci posso stare. La citazione: “Una Donna Tutta Sola” di Paul Mazursky 1978, mi è venuta spontanea. Dunque, anche per questo viaggio, la persona non vedente ha bisogno di avere accanto qualcuno che sappia intuire quando è opportuno rompere il silenzio delle immagini e sussurrare una descrizione essenziale.

Proviamo a immaginarci spettatori.

Una volta seduti, con le luci in sala ancora accese, gettiamo uno sguardo rapido a chi ci sta intorno per curiosità, per scambiare un cenno di saluto o per evitare la vicinanza con una persona dall’aria antipatica. Un volto, un’espressione, la rotazione di un polso che spunta dalla manica di una giacca, potrebbero catturare la nostra attenzione mentre la pubblicità e la programmazione ci accompagnano nel buio.

Allora quei dettagli visivi non sono più niente, nemmeno ricordi, cancellati dall’oscurità con un’unica passata. La mente è sgombra, pronta a lasciarsi guidare verso altri orizzonti. Noi siamo corpi, respiri, colpi di tosse, odori che saturano l’aria. Siamo suoni di risa, bisbigli, timbri bassi e acuti che, in quel momento, davanti a quella proiezione, danno vita a un’atmosfera originale.

Il vissuto del film è un impasto multiforme, è l’espressione consapevole, al contempo subliminale, di persone convenute lì con un obiettivo comune. Non un gruppo, ma corpi pulsanti, abbandonati su isole confortevoli. Spettatori che si lasciano attraversare dal buio, che nell’oscurità cercano qualche cosa: dal divertimento al rilassamento, dall’appagamento alla catarsi, dal sogno a un inestinguibile desiderio di viaggiare.

Oggi la tecnologia ha reso il passaggio dalla luce all’oscurità quasi perfetto. Ha eliminato quel pulviscolo d’oro che il fascio di luce del proiettore spargeva su di noi, trascinandoci, come il pifferaio magico di Hamelin, dentro la pellicola. Eppure, il buio mantiene ancora intatto il suo effetto.

Può succedere, infatti, che durante la visione del film, mentre le immagini riempiono schermo, occhi, cervello e cuore, l’aria satura di vibrazioni, ci tocchi, ci percorra, a volte solleciti le corde più sensibili e nascoste della nostra anima.

Ci sentiamo, allora, esseri fluttuanti, esploratori e avventurieri guidati da tutti e da nessuno nel mare oscuro. E siamo un banco di pesci trascinato dalle immagini della pellicola in una corrente ignota e familiare, che l’ombra fa risalire dal nostro “inconscio collettivo”.

In sala, seduta accanto a me, c’è “l’amica di cinema”, cioè quella che tra le mie amicizie ha un feeling cinematografico con me. Probabilmente, anche tra le persone che vedono è così. Tra i cinefili più solitari, qualcuno, molto concentrato sul film, percepisce lo svelamento di passaggi segreti, libere associazioni impensabili in altre circostanze. Sente che sta costruendo un ponte tra realtà, sogno e immaginazione. Forse è il tocco di un accompagnatore invisibile, presente in sala per tutti, vedenti e non, che lo sta aiutando. Il buio è un luogo magico, un tempo sospeso dove sentirci isola e, insieme, arcipelago.

 Claudia Consonni collaboratrice Ierfop

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