Invito al Desiderio – 11 La camera d’ospedale e i suoi abitanti

La camera è spaziosa, con due grandi finestre affacciate sulla strada, che si aprono a piacere per cambiare aria e lasciar entrare i rumori della città. Il riscaldamento è silenzioso. Questi sono dettagli ai quali non si dà importanza, infatti in molte case di cura le finestre sono sempre chiuse, il ricambio dell’aria avviene per vie interne e il calore è soffiato nelle stanze con un rumore fastidioso. Gli architetti non lo sospettano, ma questo è impoverimento percettivo, immaginativo e cognitivo. L’ambiente mi appare gradevole, arredato con un tavolino, degli armadietti rosa disposti lungo una parete tinta di un verde chiaro tendente al grigio e pavimenti di piastrelle punteggiate in bianco e nero, due letti super tecnologici e un bagno comodo. L’edificio risale agli anni sessanta. La sua geometria semplice, i locali grandi e luminosi, facilitano l’immaginazione degli spazi e l’orientamento. Ovunque si respira un’atmosfera rétro, carica di energia, di tensione verso il futuro, propria di quegli anni. I letti meritano una descrizione speciale. Abbinati nei colori al grigio e rosa della stanza, sono forniti di un tableau con dei simboli disegnati in leggero rilievo che mi permettono di governare il letto: alzarlo, abbassarlo, modificare l’inclinazione dello schienale o sollevare le gambe. Questa pulsantiera a sfioramento posizionata di fianco al cuscino è molto comoda e sembra studiata per le persone non vedenti. Il materasso antidecubito è sofisticato e costoso. Si compone di salsicciotti gonfiati ad aria, somiglianti ai parabordi delle barche, disposti in orizzontale che formano una superficie ondulata perpendicolare alla colonna vertebrale. Ogni materasso è gestito singolarmente da un computer che lo programma a misura del paziente. Calcola, sulla base del peso e della posizione dell’ammalato, la quantità d’aria e la pressione che il compressore deve immettere nei salsicciotti per trasmettere le vibrazioni necessarie a prevenire la formazione delle terribili piaghe da decubito, tanto frequenti nelle persone immobilizzate a letto. Di giorno e di notte il motore del compressore produce un ronzio che ricorda quello dei vecchi frigoriferi. Così non ho mai chiuso occhio a eccezione dell’evento clou della degenza: il tempo dell’intervento. I salsicciotti duri e grossi premono in diversi punti della spina dorsale. Per attenuarne il fastidio, resto per molte ore stesa in diagonale, suscitando curiosità e stupore nel personale. Come in vela non è conveniente tagliare le onde con la prua a 90 gradi, ma è preferibile scivolare in obliquo, così, stesa in diagonale tentavo di smussare l’effetto di quei salsicciotti disposti perpendicolarmente alla colonna. Durante la mia degenza, durata 14 giorni, nel letto accanto al mio si sono avvicendate due signore milanesi ultra ottantenni. Entrambe in uno stato avanzato di demenza. Anche il motivo del loro ricovero è analogo: una caduta in casa che ha provocato loro la rottura del femore. I medici cercheranno di rimediare con qualche ferro per rimetterle in piedi e farle camminare ancora un po’. Verranno operate prima di me. Perché io, anche con l’anca fratturata, sono in forma e posso aspettare. Questo dicono i medici. E poi, sono monitorata e curata con gli antidolorifici, aggiungono. Se durante il viaggio il tempo vola, qui, nell’immobilità forzata, i giorni hanno ali di piombo. Le chiamerò Rosa 1 e Rosa 2 queste impreviste compagne di viaggio per omaggiarle con il nome del fiore che, dal Dolce Stil Novo è simbolo di bellezza e spiritualità.

Dialogo con Rosa 1 Rosa apre gli occhi al mattino e dice: – Che bel mare si vede dalla finestra! Lei non lo può vedere perché ha davanti una colonna, io sono privilegiata. – Rivolgendosi a me che sono cieca. – Com’è bello il mare della Liguria! — Sì è proprio bello – le rispondo. – Qui siamo a Santa Corona vero? – – No signora, siamo al Galeazzi. – – Ah, al Galeazzi? – – Sì al Galeazzi di Milano. – A fine inverno, un cielo grigio pesa sui palazzoni di Affori, un quartiere di Milano. Il Santa Corona è un ospedale fondato da Stefano da Seregno a Milano nel 1496. Nel ‘900 si è trasferito a Pietra Ligure dove il clima è mite e salubre, specializzandosi nella cura della tubercolosi, della poliomielite e della fragilità ossea. Oggi fa parte del sistema sanitario della regione Liguria. Negli anni ’40, ’50 e ’60 ha contribuito a sostenere e a curare i bambini e le classi sociali più deboli che, a causa della guerra e della povertà, erano debilitati o contraevano gravi malattie. Rosa 1 sovrappone a questo ricovero il ricordo di quando, giovane sposa, è stata curata al Santa Corona per gravi problemi alle vertebre. – Non ci portano la cena? Si sono forse dimenticati? – – No signora, abbiamo appena finito di pranzare, è pomeriggio, è presto per la cena. – – Ah, è pomeriggio? – La signora ha un marito che cammina con le stampelle, è ultraottantenne e si prende cura di lei. La pettina, le cambia la camicia da notte e l’aiuta a mangiare. Lo fa con gesti delicati, accompagnati da parole gentili che attenuano il senso di vergogna e di umiliazione di cui la signora è consapevole. Li osservo ammirata e mi piace immaginare che condivideranno ancora qualche giorno felice in riva al mare, proprio quel mare che brilla per lei oltre la finestra.

Rosa 2 I giorni passano, non vengo operata entro 48 ore come mi era stato prospettato perché arrivano casi gravi che hanno la precedenza. Dalla camera situata sopra all’ingresso del Pronto Soccorso sento di notte e di giorno le ambulanze che arrivano e penso che dovrò aspettare perché qualcuno mi passerà davanti, d’altra parte, sono curata, l’assistenza medica è ottima e quindi non mi resta che avere pazienza. Rosa 2 deve essere operata al femore, così trascorre tutto il giorno a letto silenziosa e ossessionata dalle feci. Una signora viene due volte al giorno a imboccarla. Sono amiche da sempre, donne umili e grandi lavoratrici. Qualche volta, quando Rosa non è immersa nel torpore, riesco a parlarle, allora mi racconta che ha cominciato giovanissima a fare la dattilografa in una nota azienda milanese riuscendo poi a diventare capoufficio. Da qualche anno però si rifiuta di camminare, a casa vive a letto aiutata da una badante. Suo marito ultranovantenne che ha svolto per tutta la vita un’attività artigianale, ha perso parte della vista e dell’udito, per questo non esce di casa e sta sulla sedia a rotelle. Parenti e vicini vengono a trovarla, eppure, intorno a lei si respira un’aria di grande disfacimento che non mi lascia indifferente. Un giorno, però, è arrivato anche il marito. Si sono abbracciati stretti rifugiandosi l’uno nelle braccia dell’altra. I miasmi fecali saturano la stanza anche durante l’ora dei pasti. Io, però, nell’immobilità forzata, ho appetito, prendo i pasti regolarmente e tengo la posizione in diagonale. Apro la finestra, l’aria fredda porta l’odore della città. Immagino il bel mare della Liguria spuntare tra i palazzoni di Affori.

Claudia Consonni, collaboratrice Ierfop

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