Invito al Desiderio – 12 Viaggio nella sala operatoria finta

Le 48 ore sono trascorse, sono sempre nella Sezione Trauma e aspetto… Si opera tutti i giorni, lunedì, martedì e mercoledì dalle sette alle venti, il giovedì solo di pomeriggio, venerdì dalla mattina alla sera, sabato e domenica solo le urgenze; quando sarà il mio momento? Sono curata, mangio, lavo i denti in un bicchiere, il viso in una catinella e mi pettino. Mani d’altri lavano tutto il corpo. Mi giro e rigiro nel letto circondata da un groviglio di fili. Sopra alla mia testa scende uno spinotto al quale attacco il cellulare. Mi assicuro sempre di averlo posizionato correttamente perché non dormendo mai, trascorro le notti leggendo e ascoltando la radio. La flebo con l’antidolorifico e la fisiologica è sempre in vena. Così succede che quelle chiavi sporgenti e i loro fili intralcino i movimenti e le vene si rompano. Ogni sera chiedo al personale che serve la cena, se per me non è previsto il digiuno preoperatorio. A ogni ortopedico pongo domande: Che forma ha la protesi? Di che materiale è fatta? Come funziona? Quanto pesa? Potrei toccare un modellino? Col trascorrere dei giorni, l’attesa dell’intervento accresce la mia paura e l’energia per controllarla piano, piano si esaurisce. Avere informazioni mi aiuta a gestire meglio l’ansia. Il Galeazzi cura molto la preparazione psicologica all’intervento chirurgico e la pratica così. Nelle ore precedenti l’evento, il paziente che ne fa richiesta, partecipa ad una seduta di Pet Therapy. Un Labrador nocciola viene a trovarmi. Si chiama Lizzy. Sento i suoi passi leggeri sulla soglia della stanza, poi saltella intorno al letto e mi tocca un fianco con il muso. L’accarezzo, ha la punta delle orecchie più morbida del velluto, lascio che appoggi il naso umido sulla mia fronte e le parlo dolcemente. Riceve le mie coccole mentre col muso peloso mi fa il solletico. Poi scodinzolando se ne va. Vengo operata di giovedì pomeriggio. Mercoledì ho fatto una cena leggera e poi più niente. Alle otto gli infermieri mi preparano: mi lavano, mi cambiano la camicia da notte e mi tolgono lo smalto dalle unghie. Questa è la volta buona, penso, sperando che non arrivi un caso urgente. Sono stati ritirati i vassoi del pranzo, non per me, naturalmente e vengono a prendermi. Il letto viaggia verso l’ascensore con Lizzy che mi accompagna come un’amica fedele. Saliamo veloci al sesto piano. Qui, a differenza di molti ospedali che hanno le sale operatorie nei sotterranei, si va in alto, verso il cielo e questo mi piace. Imbocchiamo un corridoio, Lizzy è sempre al mio fianco. Insieme, l’infermiere che spinge il letto, io ed il Labrador Retriever oltrepassiamo la soglia della sala operatoria. Poi tutto sparisce. Un velo mi racchiude e sono un confetto avvolto nel tulle. Sento qualche cosa di morbido, forse è l’orecchio di Lizzy. Il chirurgo prende il mio ossicino rotto, quello che la mia mamma ha costruito con tanto amore e lo passa al Labrador seduto in attesa sotto al lettino operatorio. Parlo da dentro al velo: – Ti piace Lizzy l’ossicino che mi ha donato la mamma? – – Sì, sa di fragola e cioccolato. Grazie Claudia. – Uno schiocco di lingua dà la conferma.

La Sala Operatoria Vera

Al sesto piano l’ascensore apre le porte. Il letto, proprio quello dal materasso a salsicciotti corre lungo un corridoio dal pavimento levigato. L’infermiere è silenzioso. Io sono impaurita e fiduciosa insieme. Mi sembra di capire che intorno ci sono diverse porte, almeno sette. Nessun odore di alcol, etere, lisoformio o chissà quale altro intruglio. Nelle voci e nel movimento delle persone attorno, colgo un’atmosfera carica di energia e dinamismo. Le porte si aprono e si chiudono, le frasi s’intrecciano: – La sala 5 deve essere pronta tra 30 minuti. La 3 è libera. Quando finisci il turno? – Due signore mi trasferiscono su un lettino dal materasso piano, che mi sembra più che mai morbido e confortevole. Che sia quello della sala operatoria? Mi chiedo. – Chi fa l’anestesia qui? – Sono distesa sul fianco destro in posizione fetale. La voce squillante di un giovane anestesista risponde. Un attimo dopo sento le sue dita sulla parte inferiore della spina dorsale. Punta l’ago. Il tempo di un respiro ed è fatta. Una calotta dorata mi avvolge per tenermi calda. Rimango sul fianco destro, quello a me più comodo e stendo la stessa gamba. La sinistra, quella dall’anca fratturata, viene allungata su un supporto e poi bloccata con una specie di carrellino che sento scorrere con un rumore metallico. Mi scuso per la descrizione incerta, ma non ero nelle condizioni di esplorare meglio la situazione. Tuttavia sono ancora abbastanza lucida e ho paura di sentire le conversazioni dei medici durante l’intervento, il rumore del bisturi elettrico, l’odore di carne strinata o della sega che taglia l’osso. Qualche secondo di panico e poi una grande nuvola calda, leggera come quelle rosate della sera, si è posata sulle gambe, regalandomi un sonno sereno. Così sereno che sognavo di viaggiare verso il mare. Preparavo una valigia grande, Ci mettevo dentro tutto, ma proprio tutto anche il secchiello, la paletta e le formine. Mi sveglio facilmente e scopro di sentirmi riposata. Ringrazio, vengo trasferita sul mio letto, quello dal materasso a salsicciotti e riportata in camera. Le persone che mi aspettano, nel vedermi serena, sospirano di sollievo. Presto quella nuvola calda e soffice che mi avvolge le gambe si scioglie e il dolore si fa sentire sempre più forte, martellante, di giorno e ancor più di notte. Trovare la posizione su quel materasso è impossibile e il sonno se ne va, mentre la flebo con antidolorifico, fisiologica e antibiotico, sarà sempre nel mio braccio.

Continua (…)

Claudia Consonni, Collaboratrice Ierfop

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