Invito al Desiderio – 13 Verso la dimissione e la guarigione

Sfilano i minuti, le ore e i giorni nel viaggio post operatorio. Il dolore, di giorno e di notte è appena attenuato dagli antidolorifici. I muscoli sono in fiamme. La percezione di avere un corpo estraneo nella gamba sinistra si fa sentire per la prima volta. Dopo il dolce sonno indotto dall’anestesia ritorna l’insonnia e tutto riprende. Ho appetito e il sistema idraulico funziona. Però, col passare dei giorni, mi sento sempre più spossata. L’emoglobina scende. L’idratazione in vena è costante, io mi sforzo di bere, eppure sono talmente disidratata da non riuscire quasi ad articolare le parole, tanto labbra e bocca sono prosciugate. Le telefonate e le conversazioni con le amiche e i familiari che mi assistono sono faticose.

È necessaria una piccola trasfusione che accolgo serenamente. Sarà per me vita pura, il dono di un ragazzo che corre nel parco, che fa escursioni in montagna o percorre decine di vasche in piscina. La trasfusione fa il suo benefico effetto. Rimango, però, ancora in orizzontale, col busto appena sollevato per pranzare e per lavare i denti. I capelli si sono appesantiti. Da quando sono ricoverata, indosso il camicione dell’ospedale a fiorellini azzurri, ampio, comodo da infilare perché la mia bella biancheria mi è insopportabile. Ho preso un colorito verdastro, le guance sono scavate e, insomma, ho l’impressione di diventare ogni giorno più brutta.

Man mano che la degenza si prolunga, si perde qualche cosa, si lascia il corpo in mano ad altri e questo fa uno strano effetto. Oggi negli ospedali la separazione tra i sessi non è così cogente come alcuni decenni fa. Sullo stesso corridoio ci sono camere con pazienti uomini e camere con donne. Così succede che anche il personale infermieristico si prenda cura indifferentemente sia degli uni che delle altre asessualizzando e neutralizzando il corpo del paziente. La vergogna si cancella, il pudore si nasconde e si lascia spazio alla routine delle procedure ospedaliere, mentre un dialogo impercettibile si instaura tra la pelle e la mano, tra le parole e gli sguardi. Il mio corpo, come un involucro di medusa si affida alle onde.

Ma la passività e la dipendenza indotte dalle circostanze sono solo apparenza. Al primo atto di malizia, è pronto a reagire con parole urticanti. Desidero riprendermi in fretta, tornare in verticale e lasciare l’ospedale. Qualche ora dopo l’intervento un giovane ortopedico che ha colto la mia tensione verso la guarigione mi suggerisce degli esercizi semplici da fare a letto per aiutare i muscoli. Poi vengono i fisioterapisti per provare a mettermi in piedi. «Signora è caduta in casa?». In tanti mi fanno questa domanda. Chissà perché le persone hanno idee così banali. «No, sono caduta giocando a tennis» riispondo in tono neutro. Loro non fanno altre domande e mi aiutano a camminare appoggiata a un deambulatore dotato di supporti ascellari. Compio qualche passo incerto. Dopo cinque minuti mi fermo perché mi gira la testa. Nei giorni successivi la resistenza aumenta: 1435 minuti in orizzontale e 5 in verticale. 1430 minuti in orizzontale e 10 in verticale, 1425 in orizzontale su quel materasso insopportabile e 15 in verticale.

Trascorro il tempo in orizzontale attaccata alla flebo, con i libri, la radio, le visite degli amici e dei parenti, mentre Rosa 2 riposa silenziosa e diffonde nell’aria i suoi miasmi.

Al sesto giorno dall’intervento, le porte del Mondo Galeazziano si aprono e stesa su una barella d’ambulanza, sento sul viso l’aria frizzante dello spazio aperto. Si chiude il portellone e via.

I segni dell’ospedale sono profondi, tredici giorni di degenza non si cancellano con la bacchetta magica. La presenza costante di Rosa 2 mi ha fatta sentire molto triste. Sono a casa, insonne e svuotata di ogni energia.

La famiglia e le amiche mi aiutano, ma la risalita è faticosa e richiede tanta pazienza che credo di non avere. Mentre un’ombra depressiva è pronta a piombarmi addosso. Cerco di muovermi, gironzolo dal bagno alla cucina passando per il soggiorno su una poltroncina Ikea, più comoda e funzionale di una tradizionale sedia a rotelle. Apprezzo il bagno caldo e profumato, mi crogiolo nell’acqua come su una spiaggia al sole e la pelle ritrova percezioni antiche e segni nuovi: piacevoli e rassicuranti le prime, estranei i secondi.

Sotto al cerotto come sarà la cicatrice? Ho 40 punti, il numero mi spaventa, alcuni sono interni, ma quelli esterni sono metallici! La sensazione di avere sotto alla pelle un corpo estraneo e voluminoso è fortissima e costante. I muscoli della gamba sinistra si lamentano, soprattutto di notte e non so come calmarli. Non ci sono più le flebo con il loro groviglio di fili e farfalline, ma al loro posto è subentrata l’Eparina quotidiana.

La prescrizione medica è di non caricare l’anca per trenta giorni. La mia, quella che mi sono autoprescritta, in accordo con i sanitari e la fisioterapista, è di fare movimento, ginnastica ogni momento, di muovermi per la casa. Così, con quattro scivolate di poltroncina percorro una decina di metri, dal letto al bancone della cucina. Seduta sulla poltroncina Ikea, mi dò la spinta con la gamba destra e raggiungo la soglia del salone, poi con le mani sugli stipiti e la gamba sana, mi lancio in mezzo al soggiorno, ancora una scivolata e sono all’entrata della cucina e infine, l’ultimo colpetto mi porta ai pensili. Con le mani appoggiate al bancone, carico la solita gamba e mi alzo, apro gli armadietti e prendo ciò che mi serve. Con questi accorgimenti riesco ad essere quasi autonoma.

Ho rifiutato il ricovero in una struttura riabilitativa perché ritengo di poter lavorare di più e con maggiore libertà a casa mia. Mi procuro un deambulatore con sostegni ascellari, le stampelle sono pericolose per chi non vede, rischiano di farmi inciampare e stancano le braccia. Due volte al giorno infilo il cappotto, lascio la poltroncina, apro la porta ed esco appesa a quel fantastico sostegno metallico. Cammino a passo svelto per 45 minuti come i giri di un vinile, sul pianerottolo. Le gambe alleggerite dai sostegni ascellari, si muovono con agilità. Un’amica è sempre al mio fianco, cura che non faccia deviazioni strane e rovini giù dalle scale. Mi segue anche lei con una mano appoggiata al deambulatore per aiutarmi nel caso mi sentissi stanca o mi venisse un capogiro.

Il cammino fa fiorire la conversazione e quell’andare avanti e indietro su un pianerottolo esposto all’aria e alla luce, si trasforma in una piacevole “promènade”.

A sera mi sottopongo al rito dell’Eparina. Non ho paura delle punture, da bambina mi hanno fatto tanta penicillina! Ma adesso, quando mi viene iniettata nel braccio va tutto bene, quando mi pungono la pancia, la mia pelle sempre morbida, diventa dura come quella di un asinello. Dovrò farne una quarantina, prima di avere il permesso di sospenderla. L’umore migliora, il viaggio scivola su quattro rotelle e un piede solo, verso la guarigione.

Claudia Consonni –  Collaboratrice Ierfop

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