Brand e marketing inclusivi: sfida agli stereotipi

Viviamo in una società basata sull’apparenza, dove la spinta alla perfezione arriva proprio dai mezzi di comunicazione. Ci vengono proposti modelli di bellezza difficilmente raggiungibili e l’appiattimento delle differenze individuali viene spacciato come normalità.

In un contesto del genere, pubblicità e disabilità non vanno certamente a braccetto, nonostante le persone con disabilità siano il 15 per cento della popolazione mondiale. Una fetta che, seppur piccola, aspira a vedersi rappresentata e accontentata nei propri desideri.

Sembra impossibile, ma qualcosa sta cambiando.

Una rivoluzione made in Italy

Il marchio Iulia Barton si è fatto pioniere di questo cambiamento portando in passerella abiti facilmente indossabili anche da persone con mobilità ridotta. «La moda resta un mondo poco accessibile per chi ha corpi non conformi» ha dichiarato l’imprenditrice Giulia Bartoccioni, fondatrice del brand, «ed ecco perché ho deciso di cambiare prospettiva con una collezione che fosse facile da portare e che demolisse l’idea della disabilità come qualcosa di poco compatibile con il glamour».

Da sei anni la casa di moda romana fa sfilare donne e uomini con disabilità sulle passerelle internazionali abbattendo barriere e pregiudizi: «Siamo i primi al mondo. Stilisti e designer temono che un abito su una modella in carrozzina non abbia lo stesso effetto, ma non è così» conclude Bartoccioni.

Le buone pratiche del marketing inclusivo

Da una ricerca dell’Obe (Osservatorio Branded Entertaniment) su 4mila casi in Italia e nel mondo è emerso come le narrazioni efficaci sulla disabilità stanno prendendo piede in settori differenti da quello medico sanitario, finora il più interessato al tema.

Da Mc Donald’s a Tommy Hilfiger passando per Samsung e Pantene, sono sempre di più le aziende che realizzano spot inclusivi servendosi di attori e attrici con disabilità.

Il pubblico sembra gradire, soprattutto quando il messaggio è autentico e rappresenta la quotidianità senza pietismi o narrazioni distorte.Come spiega Laura Corbetta, Presidente di Obe: «Si tratta di sfide molto significative per i brand che, grazie alla loro rilevanza, si trovano spesso a guidare all’interno delle audience di riferimento una trasformazione culturale e sociale in termini di linguaggio, rappresentazione, superamento dei pregiudizi. Si tratta di una dimensione nuova della comunicazione che trae nutrimento dai valori del brand, dalla sua autenticità e passione, e che richiede molta consistenza per atterrare in azioni concrete, consapevoli e credibili. Un contenuto dove si parla di disabilità è apprezzabile, ma diventa controproducente se basato su rappresentazioni stereotipate o se chi lo promuove non lo pratica quotidianamente, favorendo inclusione e accessibilità ai luoghi di lavoro, ai servizi, ai punti vendita».

Non solo la pubblicità, quindi, ma anche i servizi si stanno via via adattando a un mondo in cui la disabilità viene considerata una risorsa e non più un difetto, non qualcosa da tagliare fuori, ma a cui attingere per creare una società migliore.

Roberta Gatto

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