Dalla ricerca sulle staminali una speranza per le malattie retiniche

Sono più di 196 milioni nel mondo le persone affette da patologie degenerative della retina e ben 2 milioni nel nostro Paese.

Finora, nonostante esistano delle cure che rallentano il decorso di queste malattie, non esistono possibilità di recuperare la vista.

Una svolta importante potrebbe però arrivare dai ricercatori dell’Uwm che dieci anni fa hanno cominciato uno studio sulle staminali.

La ricerca ha infatti dimostrato come queste cellule sono in grado di connettersi con quelle vicine creando una sorta di “stretta di mano” cellulare.

Cellule amiche

Durante lo studio sono stati coltivati in laboratorio alcuni ammassi di cellule (detti organoidi) per indurle a riprodursi. Le cellule, prelevate da campioni di pelle umana, sono state quindi riprogrammate affinché si organizzassero in strati di cellule staminali capaci di legarsi ai fotorecettori dell’occhio e di imitarne il comportamento.

L’importanza delle sinapsi

La vera sfida è stata comprendere se queste cellule, una volta separate dalle altre, avrebbero continuato a comportarsi come quelle retiniche. «Volevamo utilizzare le cellule di questi organoidi come parti di ricambio per gli stessi tipi di cellule che sono stati persi nel corso della malattia della retina”» spiega David Gamm, professore di oftalmologia dell’UW-Madison e direttore del McPherson Eye Research Institute, «ma dopo essere state coltivate in laboratorio per mesi come ammassi compatti, la domanda rimaneva: le cellule si comporteranno in modo appropriato dopo averle separate? Perché questa è la chiave per introdurle nell’occhio di un paziente».

Fortunatamente, la risposta a questa domanda sembrerebbe affermativa.

Le cellule coltivate in laboratorio sono infatti capaci, una volta separate da quelle adiacenti del loro organoide, di creare nuove connessioni grazie agli assoni (i cordoni biologici che conducono gli impulsi nervosi dai neuroni al cervello).

«L’ultimo pezzo del puzzle era vedere se questi cordoni avessero la capacità di collegarsi, o stringere la mano, ad altri tipi di cellule retiniche per comunicare» aggiunge Gamm. In altre parole, se le cellule create in laboratorio fossero in grado di creare sinapsi.

Un virus modificato

Per realizzare questo scopo, i ricercatori si sono serviti di un virus della rabbia modificato affinché rendesse riconoscibili le cellule capaci di comunicare: infatti, solo le cellule dotate di sinapsi sono state infettate dal virus.

Tra queste figurano i fotorecettori (coni e bastoncelli) che solitamente vanno incontro a progressiva morte in malattie come la retinite pigmentosa e la degenerazione maculare.

Il prossimo passo è la sperimentazione sull’uomo: «tutto questo porta, in ultima analisi, a sperimentazioni cliniche sull’uomo che sono il chiaro passo successivo» ha sottolineato Gamm. Per poi concludere: «è stata una rivelazione importante per noi. Mostra davvero l’impatto potenzialmente ampio che questi organoidi retinici potrebbero avere».

Roberta Gatto

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