Sappiamo parlare di disabilità con i termini giusti?

Un tempo, neanche tanto lontano, si usava dire, “affetto da disabilità”, “diversamente abile”, “non vedente”. Si pronunciavano e si impiegavano questi modi di dire in buona fede, pensando di ricorrere a una terminologia rispettosa e corretta. Il tempo ci ha poi fatto capire che questo modo di indicare, proprio corretto non è. Nei tempi attuali di “politically correct”, oggi, questi termini sono invece quanto di più scorretto ci possa essere.

Dove sta l’errore?

Si tratta di parole di cui dovremmo imparare a liberarci perché, anche se pronunciate con buone intenzioni, finiscono per mettere l’accento su una presunta diversità. Si alzano infatti muri e barriere di cui oggi abbiamo meno che mai bisogno. E il linguaggio è proprio uno dei primi strumenti che possono aiutare a trovare la forza per abbattere le barriere e le diseguaglianze.

Iacopo Melio

Iacopo Melio su questo tema ha dedicato molto del suo impegno da attivista e oggi anche un libro, edito da Erickson. Il libro si intitola È facile parlare di disabilità (Se sai davvero come farlo). L’autore è sempre stato in prima linea quando si tratta di sensibilizzare le persone così come difendere diritti umani e civili. Così, ha pensato a una guida pratica e concreta, rivolta a tutti coloro che vogliono davvero imparare a utilizzare le parole giuste. Non già per essere politically correct, ma per dare davvero il proprio piccolo contributo per la costruzione di una società più inclusiva.

Il presupposto

Il libro si basa su un presupposto basilare: c’è un solo modo giusto per parlare di disabilità ed è farla scomparire dal nostro punto di vista, tornando a focalizzarci solo sulle persone. E allora, nel libro si ricorda come la disabilità non esiste perché è la società che la crea. In che modo? Tutte le volte che ostacola la parità, non fornendo «a ognuno gli strumenti di cui ha bisogno per poter essere al pari degli altri» per esprimere le proprie abilità.

La disabilità è da considerarsi quindi un prodotto sociale: siamo noi, con i nostri comportamenti, a fare in modo che le vite di alcuni siano più complicate di altre. E siamo noi, con le nostre parole, che spesso finiamo per alimentare pregiudizi e discriminazione.

Nasce quindi una prospettiva diversa dove si possa cominciare ad abbandonare le cattive abitudini, molte delle quali hanno origine proprio dal linguaggio. È proprio nelle parole che usiamo, che spesso si nascondono barriere, tanto più pericolose perché inconsapevoli.

Esempi

Nel suo libro Iacopo Melio fornisce diversi esempi, spiegando nel dettaglio perché certi termini, considerati spesso corretti, siano invece discriminatori.

Diversamente abile” neè il primo. Un termine che pone l’accento sulla diversità e che suggerisce di fatto l’idea di abilità inferiori. Tanto più che  l’avverbio “diversamente” ha ormai assunto nell’immaginario comune il significato di opposto. In questo modo diamo origine a formule che conosciamo bene, come “diversamente alto”, “diversamente simpatico”, “diversamente giovane” e qualcuno ricorderà anche il “diversamente bella”. Si ricorre a perifrasi pur di non chiamare le cose con il proprio nome, in modo semplice e diretto, come si dovrebbe fare.

E se cambiamo questo modo di approcciare ai problemi, si possono così affrontare temi difficili in modo più inclusivo e accessibile.

Un altro termine entrato ormai nel lessico comune è “non vedente” oppure “non udente”. È lo stesso meccanismo che porta a usare il termine “diversamente abile”. Quell’avverbio “non”, non fa altro che evidenziare e sottolineare la mancanza di qualcosa appartenente alla “normalità”. Molto meglio allora, parlare di “sordità” e “cecità”. La conferma di questa considerazione la si può avere guardando l’acronimo dell’Uici dove ci si auto definisce Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti.

Per non parlare dell’espressione “affetto da disabilità”, dove si riscontra una certa confusione tra disabilità e malattia. Eppure si può essere affetti da una malattia senza essere disabili, e viceversa. E non si obietti come, in fondo, non sono le parole che contano, ma i fatti. È sbagliato: i fatti si generano dagli atteggiamenti e gli atteggiamenti dipendono dal contesto sociale e dalla cultura, formata a sua volta proprio dalle parole e dal linguaggio che usiamo tutti i giorni. E sarà alla fine il linguaggio che potrà promuovere quella rivoluzione culturale che porta alla vera inclusione.

Bachisio Zolo

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