Metti una cena al buio: tutte scimmie o tutti corvi?

Lo staff organizzatore

Organizzata dall’associazione sportiva Sciola di San Sperate per finanziare la squadra di blind tennis, la cena al buio di sabato 8 luglio è stata senza dubbio un successo. Oltre 40 persone hanno aderito all’iniziativa e hanno accettato la sfida: cenare al buio, calandosi per qualche ora nei panni di una persona non vedente. Io ho partecipato. Ecco cosa è successo.

La cena

Tre antipasti, tre primi, due secondi, un contorno e due dolci. Un percorso di degustazione da scoprire con il tatto, il gusto e l’olfatto: questo significa che ci si deve sporcare le mani. E non solo. Per vivere l’esperienza di una cena al buio, occorre prima di tutto avere la giusta forma mentis, prenderla come un gioco e in effetti è così che ci è stata presentata, con il capo-cameriere non vedente Giuseppe Tocco che ci ha sfidato a riconoscere ciò che stavamo mangiando. Sorpresa, sorpresa: sono stata battuta dai miei commensali vedenti. Come non mi stancherò mai di ripetere, il mio senso forte è l’olfatto, mica siamo tutti uguali.

Perché sì, lo confesso, a quella cena ero un po’ un’infiltrata, una non vedente che veniva servita anziché servire, seduta al centro di una tavolata di 21 persone, tutte vedenti e per la maggior parte alla loro prima esperienza di cena al buio. Alla mia destra sedeva il mio compagno, anche lui vedente, lo stesso che a casa continua a spostarmi qualunque cosa io debba trovare in tempi brevi, l’olio, il sale, le padelle, attrezzi vari da cucina. Davanti a me, una ragazza alle prese con la sua prima cena al buio. La serata è cominciata alle 21 e si è conclusa a mezzanotte passata, per un totale di ben 3 ore di completa assenza di luce durante le quali siamo stati serviti da cinque camerieri super efficienti (Giuseppe, Andrea, Simone, Vincenzo e Daniela), tutti non vedenti, gentilissimi e molto professionali.

A fine serata ho formulato diversi pensieri e sono tornata a casa arricchita. Da cosa, direte voi, dato che per me cenare al buio è cosa normale e giusta (quando sono sola a casa nemmeno accendo la luce). Eppure l’esperienza ha arricchito anche me. E la mia autostima, che male non fa. Perché a dirla tutta, per quanto a un certo punto si cominci a dare meno peso a certe cose, come che so, le più basilari regole di comportamento a tavola tipo “usare forchetta e coltello”, un minimo di dubbi uno se li pone, almeno le prime volte. Mi riferisco al fatto che io e molte altre persone non vedenti mangiamo alcuni piatti con le mani, ad esempio la bistecca. Fa un po’ schifo, ma c’è un motivo, almeno per me, per gli altri posso solo supporre sia lo stesso. Ma vediamo insieme cosa è venuto fuori da questa serata particolarissima.

Se Cecità di Saramago fosse realtà

Nel best seller del premio Nobel portoghese, a un certo punto, le persone cominciano a diventare cieche, una dopo l’altra, e nel mondo è il caos. La serata di sabato non è stata altrettanto apocalittica, ma forse ha smosso un po’ le coscienze e aperto gli occhi (scelta di parole curiosa, ma sublime) perché, a volte, la società è cieca pur se composta in maggioranza da persone che cieche non sono.

Così, per circa tre ore, non mi sono sentita allo stesso livello degli altri commensali, mi sono sentita esattamente come si sente una persona senza disabilità nei confronti di una che invece la disabilità ce l’ha: superiore. Praticamente, (seguitemi perché è un po’ una trappola mentale) sono diventata abilista nei confronti di persone abili rese disabili dalla mancanza di una disabilità. In parole povere: il fatto di non vedere mi ha messa in posizione di vantaggio rispetto a chi, fino a qualche istante prima, vedeva. Il che mi permette di affermare che, se un giorno ci dovesse essere una crisi energetica con un gigantesco black out, i ciechi potrebbero conquistare il mondo.

Lo scienziato che faceva magie davanti alle scimmie

Insomma, come dico sempre, è una questione di prospettiva: la disabilità nasce dal modo in cui siamo abituati a percepire il mondo, non dall’avere un senso in più o in meno. Dunque, a conferma di ciò, ieri ho visto un video di un giovane divulgatore che seguo, Barbascura X, che mostrava come il fatto di possedere il pollice opponibile mettesse le scimmie (e gli umani) in condizione di non capire che la moneta che sparisce dalle dita del prestigiatore è solo un trucco, mentre altri animali senza pollice opponibili come i corvi non ci cascano. Questo perché chi il pollice opponibile ce l’ha, pensa di default che la mano che passa davanti alla moneta l’abbia afferrata. Invece no, la moneta è stata fatta scivolare dentro la manica della mano che la reggeva tra le dita all’inizio. La mano che passa davanti è solo una distrazione. Chi il pollice opponibile non ce l’ha, non comprendendo il movimento dell’afferrare, dà per scontato che la moneta non possa che essere rimasta nell’altra mano, anche se è scomparsa.

Sabato ho quindi avuto le mie tre ore da corvo, durante le quali ho aiutato la ragazza che avevo davanti a capire dove fossero le sue posate, i suoi bicchieri, l’acqua, l’ho aggiornata sull’orario (i telefonini non si potevano usare, il mio parla per cui mi è bastato attivarlo dentro la borsetta e ascoltare); ho passato il pane al mio compagno, gli ho spiegato come versarsi l’acqua, anche a lui ho detto dove fossero finite le sue posate e i bicchieri, gli ho messo il disinfettante nelle mani, la pastiglia per il lattosio (ricordo che eravamo al buio, non l’avrebbe mai trovata dentro la mia borsa non potendo vedere il blister); ho praticamente aiutato tutte le scimmiette a capire che le cose non erano sparite davvero solo perché loro non le vedevano, e l’ho potuto fare perché, a differenza loro, il pollice opponibile ce l’ho, ma la vista no.  

Touch me… in Braille

Ho trovato davvero strano che, durante la cena, il mio compagno mi toccasse la spalla in continuazione (cosa che di solito faccio io). «È per rendermi conto della distanza e anche per stabilire un contatto» mi ha detto, al che ho capito il motivo per cui io lo faccio. Ormai non ci bado più perché è diventato automatico, ma la conversazione necessita di un qualche tipo di contatto e, in assenza di quello visivo, ecco quello tattile. «È difficile capire i turni di conversazione» mi ha spiegato poi, e ancora: «il rumore delle voci ti stordisce».

Verissimo. Mentre mangiavamo, ha sparso riso dappertutto e ha finito con il mangiare usando le mani. Incredibilmente, io che a casa faccio sempre casino con il riso, sono stata super pulita e precisa. E ho usato la forchetta. Quando ho aiutato la ragazza davanti a me a trovare l’acqua, mi ha graffiata il braccio mentre allungava la mano. Cosa che io faccio nove volte su dieci. Era mortificata. Io ho sorriso e l’ho tranquillizzata. Embè, direte voi. Embè, mica ho sorriso perché ho pensato che lo faccio anche io, quindi dai, cose che capitano a tutti, figurati se sono così ipocrita da prendermela. E no. Ho sorriso perché ho pensato: «poverina, non è in grado di trovarsi l’acqua da sola, per lei è tutto nuovo e si sente spaesata, le perdono la goffaggine perché sono superiore a lei ed è mio dovere essere tollerante». Insomma, pietismo allo stato puro.

Ora, non nego che sia stato fantastico potermi bullare delle mie capacità al buio. Ma allo stesso tempo è stato terribile e stupendo comprendere che è realmente solo una questione di prospettiva. Cioè, le persone con disabilità non sono né migliori né peggiori di quelle senza. Ecco perché non siamo eroi, né poverini. Perché siamo esattamente come quelle scimmie dell’esperimento. Non appena il contesto cambia, si rovescia. Non appena il concetto di normalità sfuma e si capovolge, diventiamo tutti corvi. E spicchiamo il volo.

Roberta Gatto

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