Forza lavoro: in Italia sempre meno giovani

Secondo una recente indagine dell’Istat, il numero di giovani tra i 15 e i 34 anni impiegati a luglio 2023 si aggira attorno a 5,3 milioni: quasi 2,4 milioni in meno rispetto a luglio 2004.

Di contro, la forza lavoro disponibile tra i 50 e i 64 anni è aumentata, con ben 8.667 mila lavoratori di cui 735mila con più di 65 anni, passando così dal 42,3 per cento al 63,3 per cento nel corso degli ultimi anni e registrando un aumento di 1,3 punti solo nell’ultimo anno.

Le cause

Dati preoccupanti, se si pensa alle difficoltà cui si potrebbe andare incontro nei prossimi anni, sia per il sistema pensionistico che per quello produttivo, con scarsità di manodopera e posti vacanti difficilmente occupabili.

Le cause andrebbero ricercate in un sistema fiscale e di welfare vecchio, pensato per le generazioni precedenti e nel dilagare del precariato, che l’attuale Governo sembra incentivare. Infatti, se da un lato si è abbassato il cuneo fiscale per molti lavoratori dipendenti, dall’altro si continua a favorire l’abuso dei contratti a tempo determinato, con il 30 per cento che non supera il mese di durata.

Dal 2004, il numero dei dipendenti a tempo determinato è passato da 1,8 milioni a 3 milioni, attestando l’Italia al secondo posto nel 2021 come Paese Ue con il maggior numero di contratti a termine, superata solo dalla Spagna che però , a differenza del nostro Paese, è corsa ai ripari nel 2022.

Bamboccioni e schizzinosi

Sui giovani aspiranti lavoratori italiani è stato detto di tutto: c’è chi li ha definiti bamboccioni, chi schizzinosi, chi ancora ha suggerito di mandarli a lavorare nei campi. Tuttavia, guardando ai dati, emerge come il problema non è derivato dalla forza lavoro giovane, bensì dal sistema lavorativo.

I salari

Altro tasto dolente è il sistema salariale italiano. Quasi la metà dei dipendenti in Italia ha una retribuzione lorda inferiore ai 15mila euro annui (meno di 1250 euro lordi al mese).

Si tratta spesso della somma di più lavori part-time involontario o di più contratti a termine che espongono a vere e proprie “beffe fiscali”, ovvero situazioni in cui il lavoratore si trova a pagare più tasse di quello che guadagna.

Ancora, il divario salariale sembra avere anche un peso generazionale: la fascia d’età 30-35 infatti guadagna 11mila euro in meno (uomini) e 7mila euro in meno (donne) rispetto alla fascia 51-55.

Ne consegue una drastica riduzione delle possibilità economiche, della progettualità e degli investimenti, con ripercussioni sull’economia nazionale.

L’Italia dovrebbe quindi svecchiare l’intero sistema guardando all’esempio degli altri Paesi europei come Olanda e Germania. Entrambe, pur avendo un numero di contratti part-time e a termine superiore al nostro, applica un sistema di welfare e misure di sostegno al reddito basate sulla “Flexicurity”, che tiene conto dell’ormai inevitabile flessibilità del lavoro e propone formazione continua e politiche attive che facilitano la ricollocazione.

Roberta Gatto

Lascia un commento