Donne in carrozzina, parla l’influencer Giulia Lamarca: «ho un marito e una figlia, viaggio e sono autonoma»

Giulia Lamarca

Sui social mostra come le donne in carrozzina siano prima di tutto questo: donne, appunto. Con una vita piena e autonoma e un corpo che va al di là della disabilità.

Dodici anni fa un incidente le ha cambiato la vita. A diciannove anni, Giulia Lamarca ha perso l’uso delle gambe e si è dovuta reinventare, come spesso accade quando una disabilità bussa alla porta. La carrozzina è diventata un ausilio alla sua nuova mobilità e uno strumento di indipendenza che le ha consentito di portare avanti molti dei suoi progetti, tra cui viaggiare.

Giulia infatti è una travel blogger (un punto di riferimento per chi viaggia) e un’attivista per i diritti delle persone con disabilità. Dai suoi canali social si batte per un mondo più inclusivo. Accanto a lei anche suo marito e la loro bambina. Perché Giulia è anche questo: una moglie e una madre. Una donna, insomma, e un importante punto di riferimento per chi, come lei, si è trovata a doversi reinventare su una carrozzina.

«Il problema della scarsissima rappresentazione delle persone con disabilità è universale» spiega Giulia, «e in America, ad esempio, più di un quarto della popolazione ha una disabilità (il 26 per cento dei cittadini), ma appaiono soltanto nell’1 per cento delle pubblicità.

Nel campo della moda va persino peggio: «noi persone con disabilità siamo la più grande minoranza al mondo e non siamo rappresentate nell’ambito della moda. È come se essere disabili non fosse in voga. Oggi fortunatamente l’inclusione ha fatto passi da gigante, da quella nei confronti delle diverse etnie al mondo LGBTQ+. Invece noi non veniamo ancora rappresentati».

Un immaginario distorto

«Siamo abituati a vedere modelle o attrici con le protesi» prosegue la blogger, «mente invece modelle in carrozzina mai: le ho viste solo due volte alla Fashion week di New York. Credo che dietro ci sia un pregiudizio radicato, legato al corpo della donna che nell’immaginario comune è in piedi e mostra le gambe. Ed è un ostacolo. Penso che la mia crescita sui social sia proprio dovuta a questo vuoto: le persone sentono il bisogno di identificarsi».

E Giulia è un modello anche per tante donne con disabilità motoria che desiderano diventare madri. «Siamo abituati a vedere sempre donne con il pancione in piedi. Lavoro molto per combattere l’immaginario canonico che io stessa avevo di donna. Non mi sentivo più bella, e pensavo che gli altri avessero ragione quando mi guardavano in modo strano. Ma lo sguardo più severo era il mio».

Sesso e disabilità

Altro tabù è quello legato alla sessualità. Nell’immaginario collettivo, le persone con disabilità non fanno sesso. Eppure, come dimostra la stessa Giulia, hanno dei partner e dei figli.

«Anche su questo tema c’è un forte mito da sfatare. Mi rendo conto di essere fortunata con mio marito perché facendo il fisioterapista era abituato a toccare un corpo con disabilità. Ma le persone spesso ne hanno paura. Mi è capitato di dover dire ai ragazzi “sì, io posso fare sesso”. Magari passavano mesi e loro non osavano nemmeno fare la domanda».

Spesso, poi, si tratta semplicemente di superare una serie di insicurezze: «Ricevo tantissimi messaggi di persone che mi chiedono consigli su questi temi. “Sai che mi piace una ragazza in carrozzina ma non so come approcciarla?”. Il mio consiglio è: buttarsi: “Probabilmente lei sarà ancora più insicura di te, quindi aiutala”, dico ai ragazzi. Anche in questa sfera ci portiamo dietro l’insicurezza di non piacere all’altro, di non essere all’altezza di una donna in piedi. Un’ansia che ogni donna in carrozzina con cui ho parlato mi ha raccontato. E il sesso delle persone con disabilità è ancora un tabù e non solo con i nuovi partner, ma anche tra coppie sposate da anni che faticano a comunicare su questo tema».

Insomma, la parola chiave sembrerebbe, “comunicare”. E farlo sempre, anche sugli argomenti più spinosi, non solo in occasione del 3 dicembre. Perché comunicare è diffondere conoscenza e consapevolezza. Perché anche le parole sono importanti.

Roberta Gatto

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