Una vera inclusione scolastica? «Riconvertiamo gli ex Istituti speciali»

Il “tema” è rimbalzato su Stampa e social successivamente alle dichiarazioni di Galli della Loggia riguardo l’inclusione nelle scuole. Sono davvero inclusive e utili per chi ha una disabilità sia essa sensoriale o psichica? «Così come si è andato evolvendo in questi decenni, il modello inclusivo italiano è stato soltanto ‘declamato’ e non applicato» denuncia il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, «e così, gli alunni con disabilità del nostro Paese, necessitano assolutamente una formazione specifica degli insegnanti e una maggiore continuità didattica». Una vera e propria dichiarazione di “fallimento” in quella che era stata la “rivoluzione” scolastica introdotta con la Legge 517/1977. E cioè, tutti assieme appassionatamente in aula, sia alunni disabili che normodotati.

È però innegabile come, in questi decenni, la transizione dalla scuola speciale alla scuola di tutti, sia avvenuta con troppa improvvisazione. E con scarsi risultati visto come oggi le cronache riportino sempre più numerosi casi fatti di bullismo, prevaricazioni e risvolti di razzismo che poco dimostrano insegnamenti di inclusività e senso della uguaglianza.

Un dato di fatto è evidente: la scuola non è stata preparata adeguatamente a un compito così difficile perché non è mai stata preparata a svolgerlo.

Sì, la Legge 517/1977 ha disposto l’integrazione, ha consentito ai disabili di essere nella scuola, ma non ha fornito loro gli strumenti per includersi. Quanto possono essere utili una manciata (diciotto) di ore alla settimana per un disabile della vista che deve apprendere il Braille, principale strumento di apprendimento? Per non parlare dell’inadeguatezza della preparazione specifica sulle singole disabilità dei docenti di sostegno e ancor peggio di quelli disciplinari.

Se per “inclusione” si intende la semplice permanenza in aula dell’alunno disabile senza che esso riceva alcun intervento formativo significativo, allora, proprio, non ci siamo. E non arriviamo a niente, normativamente parlando. E se si desse uno sguardo a ciò che si fa (a scuola) negli altri Paesi culturalmente evoluti, ci accorgeremmo che tutte le regole a proposito di alunni disabili e stranieri (perché anche la mancata conoscenza della lingua italiana, a scuola, è una disabilità) vengono applicate solo in Spagna, Italia e Grecia. In tutti gli altri Paesi europei, le regole sono diverse. E non si tratta di Paesi arretrati. Anzi.

Che fare, dunque? Si potrebbe tentare di recuperare lo “spirito” della Legge 69/2000 dove, per i minorati della vista, si potrebbero recuperare quei centri specializzati nei metodi tiflologici e di tiflopedagogia.

Almeno in ogni regione italiana si possono valorizzare e finanziare associazioni deputate alla produzione del materiale didattico speciale, all’aggiornamento e alla formazione del personale del sostegno, alla trascrizione dei libri di testo in Braille e del suo insegnamento, come quello della Lis e della Caa, all’assistenza delle famiglie, all’uso di tecniche per l’autonomia, la socializzazione, l’orientamento, lo svolgimento di attività sportive e la fruizione del tempo libero e all’alfabetizzazione nell’utilizzo delle nuove tecnologie e di quelle tiflo-informatiche. Centri “speciali”, non certo “ghetti”.

Bachisio Zolo

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